La parola al magistrato – La separazione delle carriere
A cura di Daniele Colucci, Magistrato Corte d’ Appello di Napoli
Da anni si sente parlare di separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Ma di che cosa si tratta in concreto?
Premesso che la problematica è collegata anche all’importante distinzione tra obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, di cui parleremo in un prossimo passaggio, va rilevato che la discussione nasce dal fatto che nel nostro processo penale il magistrato che conduce le indagini e che poi in giudizio sostiene l’azione penale, normalmente per ottenere una pronuncia di condanna, e il soggetto che giudica, che cioè deve affermare la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, sono colleghi, provengono dallo stesso concorso, compiono la stessa carriera e, in linea di principio, possono passare da una funzione all’altra. Chi vi parla, ad esempio, è un giudice e ha sempre fatto il giudice ma, se volesse, potrebbe, a certe condizioni, chiedere e ottenere di diventare pubblico ministero. Questo da taluni è ritenuto inconcepibile, perché una caratteristica del giudice è la sua terzietà, espressa dall’equidistanza dalle parti, che nel processo penale sono appunto il pubblico ministero e l’imputato; questo, invece, per altri è una garanzia di indipendenza del pm, che in tal modo avrebbe la mentalità più garantista propria del giudice e, comunque, partecipando alla stessa carriera del giudicante ne condivide anche le prerogative costituzionali di libertà da condizionamenti da qualsivoglia altro potere; a una tale figura sarebbe poi coessenziale l’obbligo, oggi infatti espressamente previsto dal codice di procedura penale, di compiere anche tutte le indagini necessarie e utili a scagionare il soggetto indagato.
Ora, da un lato è facile obiettare che l’ordinamento potrebbe riconoscere al pubblico ministero, ma in un suo ordinamento separato, se del caso anche con un intervento costituzionale, le stesse garanzie di indipendenza e di imparzialità già assegnate al giudice, dall’altro va affermato che in parte si tratta di un problema meno rilevante di quanto possa sembrare, perché da tempo nel sistema è ben delineata una netta separazione delle funzioni, supportata anche da sbarramenti molto rilevanti al passaggio da un ruolo all’altro, non possibile in modo indiscriminato e nello stesso distretto giudiziario.
Certamente non si può non considerare che dal 1989 vige in Italia un processo penale almeno in linea di principio accusatorio, in cui la prova si forma nel dibattimento, nel contraddittorio delle parti, che sono in posizione di parità davanti al giudice terzo e imparziale, come recita anche l’art. 111 della Costituzione nella versione novellata del 1999. A questo principio si può derogare soltanto per volontà dell’imputato, che avvalendosi di un rito alternativo (un patteggiamento o un giudizio abbreviato) accettasse la prova raccolta dagli organi inquirenti, senza la sua partecipazione, però in tal caso ottenendo uno sconto di pena nel caso di riconosciuta colpevolezza.
Siamo, allora, in presenza di una quadro normativo-costituzionale che porta a considerare tendenzialmente ineludibile la separazione delle carriere.
Non va, tuttavia, nemmeno sottaciuto che il prezzo di una tale separazione inevitabilmente sarebbe rappresentato dall’accentuazione delle caratteristiche di parte della figura del pm, che quindi sarebbe sì più distante dal giudice, ma anche più accanito, o quantomeno più determinato, nel perseguire il soggetto ritenuto colpevole e che, magari, in ipotesi, non lo sia. E a rivestire i panni di quel soggetto si potrebbe trovare ciascuno di noi.